martedì 17 giugno 2008

L'uomo dei campanellini



Immobile davanti a quella scintillante distesa d’acqua pensava che la laguna gli era sempre piaciuta.
Era tanto concentrato nel comprendere con lo sguardo quanto avveniva davanti a se da non sentire più il freddo di quella assolata mattina di gennaio. Il vento, teso ma leggero, riempiva le orecchie di un silenzio rumoroso, agitava l’aria, gli scompigliava i capelli e l’anima. Non che la sua anima avesse bisogno di scosse. La vita negli ultimi tempi l’aveva messo alla prova. Erano tempi duri, ma per il momento aveva resistito. Certo era un po’ scosso, al punto che anche una piccola emozione gli era eccessiva perché gli procurava una pena, un nodo in gola, un singhiozzo che faticava a trattenere. Era stanco, stufo di combattere, di inseguire sogni troppo lontani per essere raggiunti. “Se voglio -pensò- posso guardare il vuoto. Forse posso pensare anche l’infinito. Basta che io resti immobile, che fissi tutto il mare che i miei occhi possono raccogliere. Così posso fermare il tempo. Posso fermarlo per la stessa durata che il mio sguardo impiega a coprire la distanza tra qui e fin dove posso vedere”.
Così pensava, giocando con l’orizzonte, lo sguardo perso, i pensieri in disordine, nella profonda e soffice consolazione di una estrema illusione. Non si sforzava di pensare al futuro perché pensava di non averne uno ed anche se ne avesse avuto uno sarebbe stato di un giorno, come era sempre stato nella sua vita. Considerava l’osservare quell’immobile distesa d’acqua come un intervallo, una tregua nell’esistenza, una breccia nel tempo, una specie di raccordo tra presente e passato.
Restò immobile, considerando quell’attimo come un privilegio, la testa piena di vento, nonostante l’avanzare di quell’emozione fosse per lui tanto sconvolgente da essere insopportabile.
Ora non sapeva più cosa era venuto a cercare a Grado. Il mare era ancora lì, davanti a lui, e si cullava pacifico, in una sorta di interminabile inseguimento, tra un’increspatura dell’acqua e l’altra.
Per poco una lacrima, insopprimibile, rischiò di affacciarsi nei suoi occhi scuri. Fu un attimo, ma fece di lui e della sua immobilità un tutto in equilibrio. Un equilibrio precario da cui, ne era certo, dipendeva il suo destino, legato alla sorte di quella goccia.
Era ancora immobile di fronte al mare. Non aveva idea di quanto tempo fosse passato ma percepiva ancora la presenza del vento. Si scosse. Era certo che perpetuare quella immobilità avrebbe avuto conseguenze catastrofiche. Era come se quella concentrazione potesse renderlo leggero, sollevarlo da terra, farlo galleggiare e poi, improvvisamente, affondare, lentamente, nell’acqua. Doveva muoversi e ricacciare indietro quella strana sensazione, ma per potersi muovere avrebbe dovuto spezzare quello strano incantesimo. Lo fece, ma la lacrima non cadde.
Fu in quel momento che si rese conto di non essere più solo. Dietro di lui c’era uno sconosciuto, un uomo vestito in nero, che lo fissava, anch’esso immobile, con una espressione evanescente. Portava un bel cappello di feltro, nero, un pastrano pure nero, di panno. La cravatta. nera, come nera era la camicia: “ E’ un gran giorno – gli disse l’uomo in nero indicando il mare”.
Restarono così, immobili, a fissare la distesa d’acqua.
L’uno, ritto di fronte al mare, l’altro, di tre quarti, gli era quasi alle spalle, il capo chino e leggermente rivolto a sinistra per osservarlo.
Fu allora che il vento gli portò all’orecchio un suono. Un suono familiare. Il tintinnare leggero ed argentino di un campanellino.
D’un tratto sul mare rivide se stesso bambino. Aveva 9 o 10 anni, durante una estate bellissima passata sulle montagne del Cadore. Un bosco, una passeggiata con i fratelli. Vedeva sua madre, suo padre. Rivide una giornata speciale. Quel giorno suo padre era arrivato con uno strano regalo. Tre campanellini agganciati ognuno ad un anello da portachiavi fissato con cura a un piccolo moschettone per l’aggancio alla cintura. Tre bambini, tre campanellini. I campanellini avevano la forma dei campanacci che gli allevatori di montagna agganciano al collo delle mucche da alpeggio. Ma questi erano piccoli e spandevano un trillo argentino ad ogni passo. “Ragazzi – aveva detto suo padre – oggi faremo una escursione sul Monte Nero, dove ci sono molte vipere. Ma le vipere sono timide ed hanno paura dei campanelli”.
Da quel giorno la loro attrezzatura da montagna si era arricchita di un nuovo accessorio: dopo gli scarponi, la giacca a vento, lo zaino, il berrettino, il bastone e la borraccia avevano adottato un intero set di campanellini antivipera. Si ricordò di aver pensato che simili attrezzi dedicati alla sicurezza degli escursionisti avrebbero dovuto essere venduti in farmacia come complemento del siero antiofidico che ogni estate entrava nel loro frigorifero, alla vigilia delle vacanze. Oggi sapeva bene che i campanellini non hanno, e non hanno mai avuto, alcun potere intimidatorio sulle vipere e si sorprese a sorridere al pensiero della piccola e astuta bugia di suo padre, deciso a dotare il suo piccolo gregge dei figli di un campanello utile a ritrovarli nel caso in cui si fossero smarriti durante un’escursione. Quel tintinnare ad ogni passo si era stampato nella sua memoria come il suono delle vacanze, di quelle lontane giornate felici. Dopo tanto tempo quel trillo aveva disegnato sulle sue labbra una specie di sorriso.
Ma proprio il ricordo improvviso di quella piccola felicità gli rendeva ancor più doloroso il presente. Il sorriso si era trasformato in una smorfia. Sentiva ancora il suono di quel campanellino, lo rivedeva con gli occhi, come lo avesse avuto tra le mani, poteva perfino toccarlo. Era troppo e quella lacrima, rimasta in bilico sino ad allora, gli scese a precipizio rigandogli la guancia.
Non fu come una esplosione, ma l’effetto su di lui fu il medesimo. Bastò quel movimento per spezzare l’incantesimo. Si ritrovò davanti la laguna increspata ma immobile. Tutto era tornato come prima. Il vento gli scompigliava ancora i capelli e l’uomo col cappello nero dietro di lui era sempre lì, ma più vicino. Da sotto il cappello nero si fece sentire con un colpetto di tosse, fatto ad arte, per richiamare la sua attenzione. “E’ ora di andare – disse l’uomo accompagnando le parole ad un gesto inequivocabile della mano”. Non c’era bisogno di spiegazioni: il momento era arrivato e così, lui davanti, e l’uomo in nero dietro, si incamminarono insieme verso l’acqua gelida. Non sentiva più nulla. Avrebbe voluto dedicare un pensiero affettuoso a sua moglie o a sua madre, ma non era più capace di pensare altro che a fondersi con l’orizzonte.
Inaspettatamente quel vuoto prese forma “Piccola commuovente ma dolce e dolorosa memoria – pensò tra se rivedendo i campanellini - Un velo da tenere piano tra le ciglia perché non muoia.
La stringo piano. Solo perchè non fugga come una lacrima, via per sempre, lontano dai miei occhi, da me. Piccola cara memoria”. Gli sarebbe piaciuto che quelle frasi inconsuete fossero incise sulla sua lapide, se mai ne avesse avuta una.
Fu allora che lo sentì ancora. Sentiva ancora il campanellino. Era un suono ondeggiante, portato dal vento, come il trillo che aveva sentito poco prima e che lo aveva portato con la memoria tanto indietro nel tempo. Girò la testa di lato verso un buffo tipo che avanzava sulla spiaggia nella loro direzione. Era lui che spandeva quel suono di campanellino. Si fermò a fissarlo. Erano sul bagnasciuga, e sentiva ormai le scarpe piene d’acqua e l’orlo dei calzoni inzuppato. Anche l’uomo in nero si era fermato accanto a lui ad osservare la scena con indifferenza. Il buffo ometto, che aveva il campanellino agganciato alla cintura sembrava un vagabondo, uno di quelli che dormono sulle panchine o nei portoni.
-“Ho perso la strada – disse tirando su col naso e lanciando una strana occhiata vivace alle sue spalle”. - ”Venga – gli rispose lui come un automa – io la conosco bene e l’accompagnerò” e, girate le spalle al mare, si avviò verso la sua macchina accompagnato dal suono del campanellino e dal suo buffo padrone. Mentre si avvicinava alla macchina si accorse con un sussulto che il suono del campanellino era scomparso e con lui anche lo strano vagabondo. Era confuso, era lì, accanto a lui, sino ad un attimo prima.
L’uomo in nero invece era ancora là, solo sulla battigia, con il suo pallore spettrale e l’espressione accigliata e interrogativa del giocatore sconfitto che non ha ancora ben capito cosa sia accaduto e mentalmente riepiloga e riordina gli avvenimenti per dargli un senso.